di Daniele Cipriano
Colgo l’invito a scrivere in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, come un’opportunità di riflessione sul mio percorso di vita, prima da militante e, negli ultimi anni, da responsabile dell’accoglienza dei migranti forzati. Il terreno simbolico sul quale si sedimentano le voci e i silenzi dei rifugiati è lo specchio che restituisce la fatica di svestirsi di un habitus confortevole, indossando quello liso di chi si colloca fuori-luogo. È uno sforzo di astrazione che dovrebbe riportarci lontani nel tempo, su navi affollate o su treni disperati che conducevano i nostri bisnonni, i nostri nonni alla ricerca disperata di una fortuna immaginata e lontana. La selezione tra migranti meritevoli di accoglienza e clandestini (o migranti economici) è lo scenario di senso nel quale collocare la complessità del significato della parola rifugiato.
La giornata mondiale del rifugiato viene istituita il 4 dicembre del 2000 dalla Assemblea straordinaria delle Nazione Unite, in vista del cinquantesimo anniversario della Convenzione di Ginevra del 1951. Questa è la definizione della “Magna Charta dei rifugiati” che ha accompagnato l’accesso allo status giuridico:
Ai fini della presente convenzione , il termine rifugiato si applicherà a colui che […] temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra (Convenzione di Ginevra, art.1).
È alquanto complesso ricostruire la genesi della definizione e dell’adesione dei Stati-nazione alla Convenzione, che si collocano in una temperie storica precisa, che per decenni ha circoscritto l’idea del rifugiato alle tragiche vicende europee della II guerra mondiale. E quel fantasma è ritornato ciclicamente in due occasioni: le guerre nei Balcani degli anni ’90 e l’attuale conflitto armato conflagrato in Ucraina. L’origine geografica dei profughi è un nervo scoperto del e sul diritto di accoglienza. Tra le diverse direttive europee, gli accordi, i dispositivi normativi nazionali, la protezione dei richiedenti asilo politico e dei rifugiati vive di procedure e di canali di accesso articolati e spesso disomogenei. L’enorme solidarietà per i profughi ucraini, manifestatasi in Italia e in tutta Europa, ci racconta una narrazione a due binari. Esiste cioè una duplice morale del diritto di protezione: c’è chi può e chi di contro deve attendere in un limbo fatto di privazione e troppo spesso di violenza.
Sono emblematiche alcune immagini dei campi di detenzione libici, dei respingimenti al confine polacco con la Bielorussia e dei centri di accoglienza in Polonia per i non-ucraini, che fugacemente attraversano i nostri media. Bambini, donne e uomini restano relegati in condizioni subumane e respinti contro il fondamentale principio di non-refoulement (art.33 della Convenzione di Ginevra). Si contano circa 100 milioni di rifugiati nel mondo e oltre 150 conflitti armati a diversa intensità. L’emergenza afghana e la diaspora dell’estate 2021 è stata rimossa in pochi mesi e derubricata nello spazio-trincea dei progetti di I e di II livello di accoglienza, come problema per gli addetti ai lavori. I morti nel Mediterraneo sono numeri senza eco né nome. Ma parlare di accoglienza e protezione è anche guardare ai territori e alle peculiarità che li rendono aperti e capaci di solidarietà.
La comunità frigentina dal gennaio 2018 ospita una struttura del sistema di accoglienza e integrazione (ex Sprar), dove sono stati accolti oltre venti richiedenti asilo politico e titolari di protezione. Ricordo nitidamente la domenica successiva all’apertura del centro. Portai gli otto ragazzi africani a fare una passeggiata nel centro storico. All’incrocio dell’accesso alla Panoramica Limiti uno dei ragazzi fu colpito dallo sguardo di terrore di una bambina e – con la sua intelligenza ironica e tagliente – mi chiese: “avete mai visto dei neri in questo paese?”. Fu un battesimo particolare e imbarazzante, ma incalzai il sarcasmo: “Se foste stati in un campo di calcio, nessuno avrebbe avuto paura”. I bambini ci restituiscono – nella loro delicata innocenza – i limiti delle maschere degli adulti. In effetti, Frigento ha avuto un incontro doloroso con l’accoglienza di titolari di protezione. Correva l’anno 2014, quando un ragazzo burkinabé, Ibrahim, si tolse la vita in via Matarese. Quel tragico 23 gennaio – la nostra giornata del rifugiato e del migrante – fu un momento di apertura verso un fenomeno marginale e relegato ai luoghi di lavoro più o meno formali. Chi lavora nel settore dell’accoglienza sa bene che non si dà tecnica della relazione, ma la quotidianità si costruisce sul terreno dell’emozione e dell’incontro. In quel crocevia di senso, consegniamo il nostro agire all’ignoto. La lezione che ci viene impartita è che uno è pur sempre uno, e l’Altro è la lente della nostra comprensione ferita.
Daniele Cipriano
Coordinatore del progetto SAI dell’ASC Ambito A1
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