L’uomo del vento

di Francesco Di Sibio, tratto dalla raccolta di racconti Cosa vuoi che sia un anno (Fara editore, 2020)

«Trecentosessantasei spazi dove poter inserire altrettante bottiglie di vetro come questa, il tutto in un mobile di legno, una sorta di espositore. Ho una parete a disposizione.»

Questa frase girava e rigirava nella mente di Ettore, in macchina capitò anche di pronunciarla ad alta voce, tanto era solo; la cosa principale, gli sembrava, era non rimanere a bocca aperta, senza proferire parola alcuna in grado di presentare la sua richiesta. Non voleva certo fare brutte figure.  

Quando arrivò al bivio, dove dalla statale 303 si imbocca la provinciale che porta a Sturno, parcheggiò nei pressi della falegnameria, entrò dopo aver bussato inutilmente, visto che il rumore delle macchine copriva tutto il resto. Si fece notare dal titolare e, quando gli fu giunto davanti, sparò il suo progetto: «Trecentosessantasei spazi dove poter inserire altrettante bottiglie di vetro come questa, il tutto in un mobile di legno, una sorta di espositore. Ho una parete a disposizione.» 

Alla parola bottiglie, stese la mano con la quale ne tratteneva l’esemplare e mostrò il campione. Eugenio, il falegname, fece segno di seguirlo in ufficio dove avrebbero parlato meglio, lontani dal rumore. Ettore annuì, ma ebbe un fremito di disapprovazione perché era rimasto appagato da come aveva esposto la sua richiesta e pensava di aver ormai superato quello scoglio. 

Una volta richiusa dietro le spalle dell’avventore la porta dell’ufficio ingombro di pezzi di legno, campionari di varie forme e tinte, e carte adagiate sulla scrivania, Eugenio chiese cosa gli occorresse.

«Trecentosessantasei spazi dove poter inserire altrettante bottiglie di vetro come questa, il tutto in un mobile di legno, una sorta di espositore. Ho una parete a disposizione.»

«Penso di aver capito cosa vuoi, ma sarai d’accordo con me che la richiesta non è del tutto usuale e quindi preferirei capire meglio.»

«Certo, figurati.»

«Va bene, allora inizierei a voler capire cosa deve ospitare questa struttura.»

«Bottiglie di vetro, come questa – scattò in modo automatico la mano per mostrarne il contenuto –, ovviamente coricate, non in piedi.»

«Benissimo, dammela un attimo per misurarne il diametro.»

Raccolse dalla scrivania un metro, prese con diligenza la misura necessaria e la riportò con una matita sul primo foglio di carta bianco a disposizione. 

«Volendo potremmo creare un vuoto a rombo e non con sezione quadrata, proprio come si usa fare per alcuni espositori di vino, anche se questa bottiglia di vetro è di diametro inferiore a quelle, ma credo che il risultato sarà accattivante lo stesso.»

«Mi sembra un’ottima idea.»

«Bene, allora, visto che sei convinto, lo appunto.»

«Riguardo all’ingombro totale, non ho bene in mente quanto possa sviluppare un sistema di così tante finestrelle, quindi ti avviso già da ora che sarà necessario passare da casa mia per prendere i riferimenti spaziali del vuoto a disposizione. Ho pensato alla parete del mio studiolo, ma, se occorresse, potrei liberare il lato piccolo della stanza e recuperare spazio ulteriore.»

«Sì, questo va valutato sul posto, ma per il momento dammi altre indicazioni. Un giorno di questi passerò da casa tua e vedremo direttamente lì come poter procedere.»

«Se vuoi altre indicazioni, ti posso già dire che gradirei l’uscita del collo della bottiglia dal suo spazio; insomma, posizionata in orizzontale, ma con la parte finale, fuori dalla struttura. Sul collo inserirò un talloncino grazie a un cordoncino di cotone.»

«Allora segno cinque centimetri in meno per la profondità. Poi?»

«Poi, poi, non saprei cos’altro aggiungere.»

«Hai qualche preferenza riguardo al legno?»

«Per il colore, dici?»

«Sì, ma oltre al colore, dovremmo capire la consistenza. Quanto peso dovrà sopportare?»

«Il peso delle bottiglie.»

«Questo l’ho capito, ma di cosa saranno piene queste bottiglie? Capisci, cambia la robustezza della struttura.»

«Capisco, ma le bottiglie saranno vuote, più o meno, in verità saranno piene, ma sembreranno vuote.»

«Aspetta, perché adesso mi sto perdendo. Se le bottiglie saranno piene, non potranno essere allo stesso tempo vuote.»

«C’è un unico modo per essere piene e vuote allo stesso tempo.»

«Sarebbe?»

«Sarebbe che le bottiglie sono piene d’aria!»

«D’aria?»

«Hai inteso bene.»

«La cosa si fa alquanto strana, siediti e spiegami meglio, se è lecito sapere.»

«Non ho segreti. Ora cerco di spiegarmi, però ti avviso di non considerarmi un pazzo.»

«In vita mia ho conosciuto alcune persone senza qualche rotella, ma tu non mi hai mai dato occasione per pensare di farti rientrare in quella categoria.»

«Grazie per la fiducia.»

«Anche se nella vita può sempre accadere qualcosa e dobbiamo dire addio alle nostre povere certezze.»

«Spero non mi sia accaduto nulla. Almeno io penso di no.»

«Sono tutto orecchi.»

«Ogni giorno, per un anno intero, sono andato a passeggiare lungo la panoramica Limiti e, al medesimo punto, sempre lo stesso, sempre alla stessa ora, ho aperto una bottiglia di vetro, l’ho posizionata in orizzontale, ho effettuato un movimento anch’esso orizzontale per farla riempire con il vento, immediatamente dopo ho richiuso il tappo a pressione, facendo attenzione che la guarnizione di gomma impedisse all’aria di fuoriuscire.»

«Tutti i giorni?»

«Sì, tra una settimana saranno trascorsi dodici mesi esatti.»

«Ci vuole costanza.»

«Puoi dirlo forte, ma non mi è pesato. Una volta trascorsi i primi due mesi, il tutto è diventato un’abitudine.»

«E dove ti fermi per raccogliere il vento?»

«Ti ricordi dove c’era lo scivolo per i bambini?»

«Sì.»

«Proprio lì. Penso fosse il posto meno indicato per posizionare uno scivolo e altre giostrine per intrattenere i bambini, perché i giorni in cui non soffia il vento in quel posto si contano sulle dita di una sola mano. Ma erano gli anni ottanta, era possibile tutto ciò che venisse in mente.»

«Infatti quando hanno rimodernato la pavimentazione è stato tolto.»

«Invece per i miei prelievi di vento è il posto ideale. Nel pomeriggio, anche d’estate, c’è almeno un refolo.»

«Ovviamente era quello l’orario che hai scelto.»

«Esatto. Intorno alle diciannove.»

«Anche quando c’è stata neve?»

«Certo, con il vento di burrasca, anche con la nebbia. Sempre.»

«Vento e pioggia riesco a sopportarli, ma la nebbia mi sfianca, come se mi togliesse il respiro. Eppure dovrei essere abituato a questa eventualità.»

«La nebbia è una coltre opaca contro cui proiettare la propria immaginazione, lasciar uscire tutto quello che per troppo tempo si è tenuto stretto nel petto o nascosto nel retrobottega della mente. La nebbia, tanto disprezzata anche da me, offre la possibilità di sentirsi liberi, dona la forza di realizzare i propri progetti, cementa l’impegno per perseguire i risultati inconfessabili. In un certo senso mi ha spinto nella mia piccola impresa; infatti ho avuto l’idea proprio mentre una sera passeggiavo immerso nel nulla, nell’ignoto intorno e davanti a me. Anche se preferisco i giorni di aprile e maggio, quando dai pini piantati nel giardino dell’istituto scolastico cade uno stillicidio di pigne, quelle piccole, hai presente? Quel ritmo senza alcuna possibilità di intuire la caduta successiva, il ripetersi di un evento conosciuto lontano da qualsiasi schema logico e temporale, mi lascia sempre basito, ma felicemente basito.»

«A questo punto penso di aver capito che il tagliandino di carta allacciato al collo della bottiglia con il cotone rechi l’indicazione del giorno. Vero?»

«Bravissimo, è proprio così. Non si tratta di un’idea del tutto originale, ho letto di un museo della bora a Trieste, di sicuro ho preso spunto da quell’esperienza, però voglio rappresentare una sorta di calendario del vento, non appuntando i nomi scientifici dei singoli venti, grecale, tramontana…, e i nodi della loro intensità, ma una raccolta della sostanza reale di cui si compone: l’aria.»

«Può sembrare più astratta, ma in realtà è la forma più concreta.»

«Sì, è un’entità aeriforme, impalpabile, ma per me ha tanti significati. In più, quando vidi per la prima volta su un’agenda l’anno che ormai è agli sgoccioli, fui illuminato.»

«Duemilaventi. In che senso?»

«Si può leggere anche 20-20 e venti-venti! Cambiando l’apertura della “e” muta il senso.»

«È vero. Non c’avevo pensato. Due volte venti. L’anno delle olimpiadi di Tokyo, l’anno bisestile, ecco perché trecentosessantasei posti per le bottiglie e non trecentosessantacinque. A pensarci, la struttura in legno occuperà un bel po’ di spazio. Ci vorrebbe un museo, non un’abitazione.»

«Abito da solo, sono un sessantacinquenne single; se fossi sposato, mia moglie mi avrebbe lasciato, oppure mi avrebbe cacciato di casa, per via di questo progetto del museo del vento.»

«Penso proprio di sì.»

«Alla fine non avrò la controprova. La vita è andata così e non posso tornare indietro, ma tutto questo non è frutto della solitudine, anzi ho cambiato di molto il mio punto di vista ultimamente.»

«Spiegami.»

«Per tanti anni ho cercato di essere una voce fuori dal coro, cercare la mia originalità, poi ho capito che cantare in un coro è più difficile, perché bisogna darsi delle regole e poi tutti le devono seguire. Però le regole ci sono e anche noi abbiamo collaborato nello scriverle o almeno nell’accettarle.»

«Ognuno vuole trovare la propria strada, non essere la fotocopia dell’altro.»

«Questo è apprezzabile, ma sempre più spesso, per dimostrare agli altri più che a sé stessi di avere qualità e pensiero autonomi, ci si avventura su sentieri infruttuosi. Insomma, una cosa è trovare le peculiarità caratteristiche e valorizzarle, un’altra è compiere sempre l’esatto contrario di quanto scelto dagli altri Per andare controcorrente bisogna aver letto bene la realtà che ci circonda, non approvarla e aprire una nuova strada agli occhi miopi degli altri. Ma quante persone possono vantare una simile visione? Oserei definirla profetica e per me la risposta è una o due persone in un secolo, per un paese come l’Italia.»

«Capire che tutti si stanno portando verso un burrone, invertire la rotta e, tornando sui propri passi, tentare di spiegare perché lo si sta facendo. Hai ragione, sono davvero pochi.»

«Già.»

«Nel mio lavoro, a volte, mi viene da pensare che potrei cambiare determinate procedure, inventare una nuova modalità per fissare una porta al muro dove sarà ospitata, un sistema diverso dalla coda di rondine per far aderire in modo esatto e altrettanto robusto un pezzo all’altro, cose del genere, poi penso che tutto questo sapere è frutto di secoli di storia, secoli di persone che hanno speso la loro vita a compiere gli stessi gesti nel lavoro, bellissimo, che svolgo da una vita. Comprendimi bene, sono consapevole del fatto che in futuro ci saranno innovazioni e non mi sono mai tirato indietro riguardo ad esse, ma, per modificare una consuetudine, davvero ci dev’essere un’idea semplice e geniale capace di migliorare lo stato attuale e rendere più rapido e più economico quel gesto, quel meccanismo. Altrimenti è un inutile dispendio di energie.»

«Esatto, in più l’idea nuova deve poter essere trasmessa agli altri, a quelli che si occupano delle tue stesse faccende.»

«Anche se nel commercio esiste l’esclusiva, fonte di reddito ulteriore, però sono d’accordo con te. Adesso la tua idea mi sta incuriosendo, dimmi qualcosa di più.»

«Mi fa piacere di averti incuriosito. In effetti nei pomeriggi trascorsi lungo via Limiti non ho raccolto solamente il vento, ma ho scattato ogni sera una fotografia col mio cellulare.»

«Interessante.»

«Sì, mi sembrava un ulteriore elemento da abbinare alle bottiglie. Ho pensato di stamparle in un formato abbastanza piccolo, però non ho ancora idea di come e se posizionarle vicino al mobile di legno.»

«Le foto invernali saranno abbastanza inutili, agli occhi di un estraneo al progetto, saranno immagini scure, rappresenteranno il buio o la nebbia che qui torna alla grande.»

«Sì, c’ho pensato quando ho scaricato sul mio computer quelle dei primi mesi. Sto pensando se utilizzarle o meno, intanto le ho scattate. Certo, non ci sono paragoni con le fotografie della primavera, ci sono dei tramonti a dir poco entusiasmanti, con sfumature di una tavolozza da favola.»

«C’è sempre tempo per pensare a come utilizzarle, anche perché io non potrò mettermi al lavoro prima della metà del mese prossimo. Quando saranno trascorse le festività natalizie, avrò ancora qualche giorno per ultimare i lavori già avviati, poi mi dedicherò in prima persona al tuo progetto. Anzi, facciamo in questo modo, domani mattina passerò da casa tua per rilevare le misure necessarie, guarderò pure il colore e la forma degli altri mobili che hai in casa e ci rivedremo intorno al quindici di gennaio. A quel punto ti proporrò la mia idea sulla struttura.»

«Ci sto. Allora t’aspetto domani, ti preparerò un buon caffè.»

«Un’ultima curiosità. Il posto che hai scelto, è frutto solo della necessità di un luogo in cui spira sempre almeno un po’ di vento?»

«Per la verità, ho scelto d’istinto quel metro quadrato di suolo. Poi, lungo questi mesi, mi sono dato una motivazione diversa più volte. All’inizio legavo le passeggiate lungo la strada panoramica a una sorta di propensione al viaggio e il vento mi fa pensare sempre a qualcosa che ti raccoglie in un posto e ti scaraventa in un altro, non sempre voluto. Devo aver scritto anche qualcosa a riguardo una ventina d’anni fa. Immaginavo che l’orizzonte, che si apre possente lungo la balconata frigentina, fosse una delle cause concorrenti alla fuga, al sorgere della voglia di partire per raggiungere destinazioni immaginate vicine, quasi a portata di mano, viste da lì. Mi sbagliavo. Prima di tutto perché lasciare i luoghi natii è una ricorrente anche dove non si apre agli occhi un simile panorama geografico. Aggiungo pure che ogni persona risponde alle lusinghe di queste sirene in modo diverso. Certo, bisogna mettere in conto la necessità. Io stesso sono stato circa dieci anni lontano da qui, per iniziare a lavorare. Poi ha avvertito il bisogno di riappropriarmi di questo pezzo di mondo, come se un’antenna mi inviasse dei segnali di richiamo proprio da quella propaggine posta sul versante nord della montagnola. Devo aggiungere un altro particolare.»

«Ho ancora qualche minuto a disposizione, ti ascolto volentieri.»

«Se volessi andare per il sottile, questo non è il mio paese natale. I miei genitori lavoravano all’estero, siamo rientrati quando avevo sei anni. Ho dovuto compiere un’operazione di scavo, svolto in modo cosciente solo dopo i trent’anni, per recuperare una parte importante delle mie radici. Da bambino ho convertito il modo di parlare, mettendo da parte quello della consuetudine scolastica di dove abitavamo, sostituendolo, con non pochi sforzi, con quello utilizzato nelle rare vacanze in cui riuscivamo a tornare qui. Dopo i trent’anni, dicevo, ho lavorato molto per riappropriarmi di una parte consistente del passato della mia famiglia: quelle che erano state le storielle raccontate da mia nonna quando ero ancora bambino, l’ho trasformate nelle tessere di una storia, piccola ma essenziale, quella della mia famiglia, la radice da cui è spuntato il germoglio della mia vita. Adesso devo proprio andare, penso di averti fatto perdere fin troppo tempo. Il lavoro non può attendere le mie tante parole.»

«Intanto ci rivedremo domani a casa tua. Quando verrò a montare la struttura, avremo ancora tempo per continuare questi discorsi.»

«A questo punto, arrivederci.»

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