di Francesco Di Sibio, tratto dalla raccolta di racconti Cosa vuoi che sia un anno (Fara editore, 2020)
Sarebbe stato più facile vincere qualche premio considerevole alla lotteria o grattando uno dei tanti biglietti che si comprano nei bar e nelle tabaccherie. Sarebbe stato meno eclatante, però, perché avrebbe coinvolto un numero minore di persone, una o una famiglia, e un intero paese a sparlarne per qualche giorno. Invece, quello che accadde fu di una portata colossale per un piccolo paese.
Ancora non se ne conosce il motivo, rimane avvolto nella leggenda, ma un giorno di gennaio comparvero delle locandine: invitavano determinate categorie di persone, molto generiche, (in effetti si sarebbero potuti proporre tutti i quasi quattromila abitanti) a presentarsi nella data stabilita presso palazzo De Leo. La finalità era netta e sconcertante: provini per partecipare a imprecisate riprese cinematografiche.
E quel giorno via Roma era una fiumana di gente pronta a mettere in mostra i propri talenti. Erano giunti anche dai paesi limitrofi, qualcuno addirittura da altre regioni, ma furono subito dissuasi dai responsabili del casting, i quali specificarono ulteriormente, se le locandine affisse non fossero state adeguatamente esaustive in merito, la caratteristica principale richiesta, ovvero parlare in modo fluente il dialetto del posto.
I giorni adoperati furono ben cinque. Il primo fu impegnato a stilare l’elenco di chi si era proposto, con la categoria corrispondente. Verso mezzogiorno fu affisso al portone del palazzo l’ordine dei provini con turni mattutini e pomeridiani per i successivi quattro giorni.
A parte la famosa locandina, tutto il resto era avvolto in un sontuoso mistero. Quei due o tre sedicenti esperti locali di cinema passeggiarono sotto palazzo De Leo tutto il pomeriggio, facendo elucubrazioni sul possibile regista che aveva scelto come location – dissero proprio così – quel pezzo di Irpinia rappresentato dal loro paese. Volarono nomi importanti, spuntarono due o tre premi Oscar, qualche vincitore di David di Donatello e una mezza dozzina di Nastri d’Argento. Si puntò direttamente su registi esperti, non sembrava ci fosse alcuna possibilità per artisti alle prime armi. Osarono addirittura immaginare qualche possibile sceneggiatura adatta al luogo, andando a pescare nella memoria fatti di cronaca che avevano movimentato o inorridito la comunità nei cinquant’anni precedenti. Erano sicuri fosse quello il legame nascosto dietro la richiesta di saper parlare il dialetto.
Le parrucchiere, intanto, furono prese d’assalto dalle donne desiderose di far parte del film con una pettinatura consona al proprio viso espressivo; le liste di prenotazione furono allungate di sera in alcuni casi fino alla mezzanotte.
Non mancarono acquisti di indumenti nuovi ed eleganti, mica ci si poteva presentare con il primo vestito preso dall’armadio?
Sisto fu tra i primi a scendere la scalinata in breccia irpina che portava verso l’uscita. Di buon’ora si era presentato, aveva compilato la liberatoria e aveva atteso il suo turno, quando si affacciò su via Roma, fu assalito poco oltre il portone da un nugolo di compaesani. Lì, diede il via a quella che rassomigliava a una conferenza stampa, argomentò amabilmente per quasi trenta minuti, mentre una decina di altri provinati si allontanava senza destare alcun interesse.
Tra l’altro, si lasciò andare a facili previsioni: «Sono sicuro di aver fatto bella figura. Ho mostrato tutta la mia competenza nella recitazione; d’altra parte, cari amici, sapete benissimo di avere di fronte l’unico frigentino capace di vantare un passato cinematografico, e che passato! Ricorderete di sicuro la mia partecipazione alle riprese del film premio Oscar La grande bellezza del grandissimo maestro Paolo Sorrentino. Mi attende un ruolo importante, chissà che non sarò io il protagonista.»
Un mormorio si diffuse tra gli astanti. Infatti la partecipazione alle riprese del premiato film erano vere, solo che aveva taciuto il suo ruolo; all’inizio del film si intravede tra tanti un corpo ballare sopra al terrazzo di un palazzo romano per la durata esatta di un interminabile secondo, mentre tutti cantano Mueve la colita mamita rica mueve la colita, nel corso della festa per i sessantacinque anni di Jep Gambardella. Quello era Sisto.
Il clamore per le audizioni si esaurì troppo in fretta, tutti avrebbero gradito rimanere ancora sotto i riflettori. Il gestore di un locale commerciale avvicinò un paio di responsabili della produzione e li invitò a prorogare di alcuni giorni la loro presenza, magari spalmando i provinanti su un paio di pomeriggi in più. Non ci fu verso. I tempi erano contingentati e avevano l’ordine di rispettarli.
La bolla di notorietà scoppiò nel mezzo di un lungo e solitario inverno.
La primavera successiva i portalettere incominciarono a recapitare una ventina di buste inviate dalla produzione. L’elenco degli arrivi veniva aggiornato quotidianamente nelle chiacchiere in strada, sommando ogni volta tre o quattro nomi, a seconda della zona coperta dalle consegne avvenute a rotazione.
Quando si esaurirono gli arrivi, tutti pensarono a una pausa, in fondo venti persone non erano nulla rispetto alle centinaia di comparse necessarie: aspettavano fosse girato un vero kolossal. Chi patì più di tutti l’attesa fu proprio Sisto. In paese iniziarono a chiamarlo Il divo Sisto, un po’ per sottolineare la sua partecipazione a una pellicola di Sorrentino, regista anche del film Il divo, su Giulio Andreotti, ma soprattutto per farsi beffe di lui.
La sua buca postale rimase vuota, neanche le bollette delle utenze la riempivano, la tal cosa mandò il malcapitato prima sull’orlo di una depressione, poi lo spinse verso un illogico ottimismo, attribuendo la mancata ricezione della convocazione per le riprese alla generale scarsa consegna della corrispondenza.
Per strada i compaesani lo tormentavano, porgendogli la stessa domanda: «Anche tu sei stato convocato?»
La risposta, sempre speranzosa, seguiva immediata: «Non ancora, ma la lettera arriverà a giorni, ne sono sicuro.»
Un sorriso di circostanza accompagnava con garbo le poche parole tremanti.
L’attesa fu inutile.
La data di convocazione giunse lentamente e si presentò in un’assolata giornata di pieno maggio, mentre neanche il solito ponentino aveva voglia di turbare l’avvenimento.
Il sindaco si presentò con la fascia tricolore per accogliere la troupe. Lo accompagnava l’assessore alla cultura e per poco non ebbe un malore, quando si trovò di fronte Paolo Sorrentino. L’orgoglio esplose alla scoperta del mistero tenuto nascosto nel corso di tanti mesi. Nel tentativo d’imbeccare il sindaco sulla personalità che aveva di fronte, iniziò a balbettare un curriculum fatto di titoli e premi e partecipazioni ai maggiori concorsi cinematografici. Il sindaco percepì soltanto una parola su tre di quelle suggerite dal suo stretto collaboratore e si vide costretto ad allungare la mano esclamando un generico: «Maestro, è un vero onore per noi averla qui!».
Il regista si limitò a risolvere la stretta di mano e a ringraziare. Chiese la cortesia di lasciare il campo e dargli la possibilità d’incominciare a preparare il lavoro.
In modo alquanto chiassoso tutto il paese partecipò alle riprese al di qua delle telecamere. Più di una volta lo stesso Sorrentino inforcò un megafono minacciando bonariamente di continuare le riprese senza altre presenze se non tecnici, attori e comparse. Allora il vociare si limitava per un paio di minuti scarsi, poi montava nuovamente.
Tutti si resero conto del tempo necessario per girare in modo corretto pochi secondi di filmato: un’eternità. Già nel pomeriggio in pochi rimasero alle spalle dei tecnici, gli altri preferirono ritornare alle proprie faccende.
Il secondo giorno iniziarono a circolare voci, confermate in seguito, sul contenuto del lavoro. Il kolossal previsto e sognato in realtà si dimostrò essere lo spot per un istituto bancario, trenta secondi in tutto. A quel punto le venti persone chiamate per il ruolo di comparse parvero anche troppe. In più un altro elemento faceva sorridere in modo ironico: l’anno precedente, infatti, aveva chiuso l’ultima filiale di quelle tre banche che, con estremo entusiasmo, erano state aperte negli anni Novanta per gestire i risparmi dei frigentini.
Sisto, intanto, si arrovellava il cervello per cercare di spuntare anche solo la presenza sul set. La mattina del terzo giorno di riprese si presentò tutto vestito di bianco. Pantaloni, camicia e giacca, anche le scarpe erano di un luccicante color neve. Il suo tentativo di non passare inosservato andò a segno, peccato che furono i suoi compaesani a notarlo. D’un tratto una voce ruppe il silenzio: «Il divo Sisto è andato in bianco.»
Tutti scoppiarono a ridere. Lo stesso Sorrentino si informò del clamore della battuta e l’assessore alla cultura, che si era autocandidato a sostenere i rapporti tra produzione e amministrazione, si incaricò di spiegare la circostanza. Durante la pausa pranzo il regista fu informato di tutto quanto riguardasse Sisto. L’assessore fu minuzioso fino al limite del patetico, partì dall’infanzia travagliata, fatta di varie malattie che avevano minato la salute anche emotiva del giovane frigentino, poi la partenza per Roma, dove si era iscritto al Dams senza ricevere in contraccambio la stessa passione. Finalmente giunse il capitolo dedicato alle riprese de La grande bellezza.
Paolo Sorrentino rise di gusto, soprattutto del seguito, ovvero dell’aspettativa, tanto scontata quanto disattesa, della lettera di convocazione successiva ai provini.
Cosa si poteva fare? Il copione era oliato bene, nulla poteva andare fuori posto, nessuno poteva essere inserito all’ultimo senza turbare gli equilibri raggiunti.
«Una notte», questo chiese il regista per poterci pensare, l’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno di riprese e qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Diede, quindi, appuntamento all’assessore per il giorno seguente, chiedendogli di presentarsi accompagnato dall’ormai famoso attore.
«Azione!»
«Quante volte hai pensato a come investire i tuoi soldi? Quante volte hai creduto di commettere un errore entrando nella tua vecchia banca? Quante volte hai chiuso gli occhi prima di firmare un investimento, incrociando le dita e sperando andasse tutto bene? Da oggi tutto questo è solo il passato, fai come me, entra nella nuova banca moderna.»
«Stop! Buona! Ma facciamone un’altra. Stavolta, Sisto, non dire “nuova banca moderna”, dici solo il nome della banca. D’accordo?»
«Certo. Va benissimo, ne farò un’altra superlativa.»
«Superlativa non serve, basta buona.»
«E buona sia.»
Giratosi di spalle al regista, Sisto pensava tra sé e sé: «il nome della banca, ma non era nuova banca moderna? Allora qual è il nome della banca? Il nome della banca, mi sono dimenticato il nome della banca. Il nome…»
Aprì gli occhi di scatto mentre la sveglia suonava il suo allarme. Era stato un incubo. Si intristì di prima mattina, perché quel sogno così reale gli aveva donato una gioia non vissuta da anni. Invece era stato solo un sogno e la realtà si dimostrava ancora una volta oscura come quel giorno che lentamente abbandonava l’alba con un sottile strato di foschia.
Anche se sconfitto, decise di non voler perdere l’ultimo giorno di riprese, si vestì in modo normale, non voleva più dare nell’occhio. Inforcò gli occhiali da sole, più per coprire le occhiaie di una notte iniziata troppo tardi rispetto al sole, non così forte da esigere protezioni. Aveva perso un’altra occasione, ma era deciso ad andare avanti, si era convinto dell’importanza della recitazione nella sua vita. Forse il discorso era abbastanza contorto e da illuso, ma era pur sempre il frutto del primo pensiero appena sveglio.
Un grosso dubbio aveva turbato l’intero pomeriggio precedente dell’assessore alla cultura. Cosa avrebbe dovuto fare? Intercettare Sisto subito ed esporgli la bella notizia della convocazione per la mattina seguente, oppure temporeggiare, cercando di capire se davvero ci potevano essere le condizioni per un epilogo positivo? Insomma, non avrebbe voluto cedere al trionfalismo, né alla mancanza di speranza. Era entrato in un bar e aveva ordinato un espresso. Aveva confidato nella caffeina come vasodilatatore, mentre in realtà per il sistema nervoso è un vasocostrittore; gli era venuto un forte mal di testa e aveva deciso di andare a casa e stendersi qualche minuto sul divano.
Complice l’assenza della moglie (quel giorno aveva una riunione di lavoro importantissima dimostratasi anche lunghissima), la pennichella prevista era divenuta una vera catalessi.
Dopo alcune ore era rinvenuto dal sonno e si era messo all’opera per avviare la preparazione della cena, come pattuito in mattinata con la moglie. Mentre i fuochi e il forno facevano il loro lavoro, aveva aperto il quotidiano e letto alcuni pezzi considerati interessanti.
Aveva provveduto, poi, ad apparecchiare la tavola, mentre i figli rientravano uno alla volta salutando e scappando nella propria stanza. Tutto era pronto da un pezzo, quando la moglie rincasò. Erano le ventuno. Si erano messi a tavola dopo aver convocato i due figli, distogliendoli dai rispettivi giochi al computer. Si erano staccati solo alla seconda chiamata, tanto che al padre assessore era sembrato di stare a Montecitorio nel corso delle votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Tra una cosa e un’altra, si era dimenticato di rintracciare Sisto per comunicargli almeno di farsi trovare in piazza Umberto I alle nove della mattina seguente.
Il sonno, infine, lo rubò allo stato cosciente sul divano, mentre aveva cercato inutilmente di appassionarsi a un telefilm.
Erano già le otto del mattino fatidico, quando prese il cellulare, cercò il numero nella rubrica e, dopo alcuni squilli, con voce fintamente squillante disse:
«Sisto, buongiorno, scusa per l’ora in cui ti chiamo.»
«Figurati, sono già sveglio da un bel po’.»
«Senti, devo dirti una cosa, penso ti farà piacere, ma cerca di prenderla con le molle.»
«Spara, sono tutto orecchie.»
«Non so se riuscirai a fare la comparsa in questo spot, ma Sorrentino ieri pomeriggio, dopo aver ascoltato quanto ci terresti a far parte del progetto, mi ha detto di invitarti per le nove in piazza, dove faranno le ultime riprese. Penso sia già una grande cosa, no?»
«Certo, certo, è meraviglioso, grazie!»
«Non ringraziarmi, perché non so cosa ne verrà fuori, però non farmi fare brutta figura, non presentarti vestito di bianco come nei giorni scorsi. Sii più sobrio.»
«Va bene, mi vado a preparare. Ci vediamo in piazza.»
Sisto raggiunse il luogo stabilito in perfetto anticipo e l’assessore lo presentò al regista, il quale, dopo un attimo di titubanza, ricordò il discorso del pomeriggio precedente e invitò Sisto a farsi preparare dalla truccatrice.
Dopo una buona mezz’ora, si rifece vivo e Sorrentino col megafono informò di una novità rispetto ai piani previsti. Indicò Sisto e chiese ai tecnici di preparare il set con quell’aggiunta.
A quel punto il capo degli elettricisti urlò qualcosa di incomprensibile, attirando l’attenzione del regista. Si avvicinò e parlò fitto fitto con lui. Si era ricordato di Sisto. Aveva riconosciuto il giovane visto sul set de La grande bellezza: tra un ciak e l’altro aveva fatto arrabbiare non poco tutti i tecnici perché in modo accidentale e in maniera maldestra aveva agganciato con un piede alcuni cavi elettrici, facendo saltare temporaneamente l’illuminazione sull’intero terrazzo. Per ripristinare il tutto dopo il guasto lavorarono diverse ore.
Si impose, chiese di non modificare i piani, lasciando tutto come stabilito la sera precedente. Il regista, dopo aver ascoltato le numerose lamentele e volendo chiudere in fretta il lavoro in vista di un montaggio con tempi serrati, approvò la linea reclamata dai suoi tecnici e fece tornare Sisto al di là dello spazio riservato a troupe e attori. Le riprese furono ultimate dopo pochi ciak, il paese rimase orfano dell’allegra confusione di quei giorni e Sisto continuò a sognare per molto tempo ancora il suo ciak perfetto.