Ricovero a sorpresa

Ricovero a sorpresa

di Francesco Di Sibio, tratto dalla raccolta di racconti Cosa vuoi che sia un anno (Fara editore, 2020)

Sento la sirena dell’ambulanza, adesso sono tranquillo.

Quando ho telefonato al 118 mi hanno chiesto: «Chi è che si sente male?»

Subito ho risposto: io!

Perché, quando uno si sente male, non può chiamare i soccorsi?

Deve essere sembrato strano, infatti hanno insistito: «Ce la fa a parlare con noi?»

Lo stavo facendo, quindi era ovvio che ce la facessi.

Poi mi hanno rivolto un’altra domanda: «Riesce a darci l’indirizzo di dove si trova in questo momento?»

Che domande, mi sono detto, sono a casa, in quella stessa casa in cui abito da ben cinquant’anni e più. Così ho indicato la strada e anche qualche altro elemento per farmi trovare senza timore di errori. Volevo aggiungere: non correte, aspetto, venite con calma, ma la voce dall’altro capo del telefono mi ha immediatamente tolto la parola chiudendo la chiamata così: «Stia tranquillo, stiamo già mandando una nostra ambulanza, fra tre o quattro minuti sarà lì». Fine della conversazione.

Ed eccomi qua in attesa. La sirena si avvicina sempre di più, inizia a darmi un po’ di fastidio, comunque vengono per me, quindi porto pazienza. 

Entrate, la porta è aperta, mi affretto a indicare ai soccorritori. Uno lo conosco, è il nipote di un mio vecchio amico, infatti, mi chiama per nome e mi dà del tu: «Antonio, come ti senti?»

Bene, rispondo, se non fosse per un dolore proprio qui, dico indicando il petto.

«Non perdiamo tempo, andiamo subito al pronto soccorso, sarà il cuore, vista l’età è molto probabile.»

Chiudo bene la porta di casa, metto la chiave in tasca, carico una borsa con qualche indumento preparato all’occorrenza.

Cerco di tranquillizzarli, ammetto di non essere in buona condizione, ma sarebbe più rischioso azzardare una volata con il mezzo a tutto gas e a sirene spiegate. Fate con calma, chiedo, e senza sirene.

Venti minuti esatti e sono al pronto soccorso, mi affidano un colore rispetto al mio stato, non c’è molta gente e mi fanno subito accedere alla stanza, dove una dottoressa mi visita dopo poco tempo. 

«Le facciamo un elettrocardiogramma, stia tranquillo.»

Non le sembro tranquillo, rispondo senza volerla offendere, ma precisando che la visione di un camice bianco non mi ha mai indotto a innalzare la frequenza dei battiti. 

«Si sdrai, respiri lentamente.»

E poi ancora: «Un attimo e la libero da tutti questi fili.»

Non ho fretta, mi accingo a sottolineare, ma taccio, forse è meglio.

«Come si chiama?»

Antonio.

«Quanti anni ha?»

Ottantatré, ancora per poco.

«Ottantatré», ripete la dottoressa prendendo appunti su un foglio.

La visita va avanti e non mi accorgo di quanto tempo sia passato.

Poi, mi dice: «Signor Antonio, io non riscontro granché a prima vista, ma siccome c’è un posto libero in reparto, la tratteniamo sotto osservazione questa notte e le faremo alcuni esami. Vuole avvisare qualcuno?»

No, rispondo sicuro, aggiungendo: a casa non mi aspetta nessuno.

Il reparto è più ospitale del pronto soccorso, mi danno un letto e mi ci sdraio subito dopo aver indossato un pigiama. Ho riposto il borsone nell’armadietto con lo stesso numero del letto, in stanza ci sono altri due uomini. Uno dorme, l’altro parla in modo dimesso con una donna, penso sia la moglie. Ho salutato educatamente appena entrato e ora la donna mi offre un dolce fatto da lei, non prima di avermi chiesto con discrezione: «Ne può mangiare?»

Accetto e ringrazio, è davvero buono, le chiedo la ricetta, so che a chi cucina fa sempre piacere.

Il pomeriggio è trascorso con un certo trambusto, rispetto ai miei standard, quindi mi lascio andare al sonno che va a gravare sopra la mia stanchezza. In un attimo mi appisolo. 

Quando apro gli occhi, mi accorgo di avere vicino al letto la cena. «L’ha lasciata la signorina pochi minuti fa, mangi pure, è ancora calda», mi dice la moglie del mio compagno di stanza, mentre sta rassettando lo spazio intorno al letto del marito, l’ha imboccato per aiutarlo a mangiare. 

Cosa c’è? mi sfugge una domanda poco pertinente visto il luogo in cui siamo ospitati. Dirotto la gaffe su una battuta con l’ausilio di un occhiolino; la donna capisce e sorride. Spazzolo tutto il pasto con la lentezza della mia masticazione e, alla fine, mettendo da parte il contenitore in attesa della venuta dell’addetta al ritiro, affermo: ecco come un luogo comune viene confermato: era proprio una cena da ospedale. 

Strappo un secondo sorriso alla donna, che non smette mai di controllare il marito sul letto, neanche quando parla con me. Deve essergli occorso qualcosa di importante, direi grave, ma mi manca il coraggio di fare domande esplicite, il poverino, a occhio e croce, avrà la metà dei miei anni.

Dall’infermiera mi sono fatto alzare leggermente lo schienale, quindi riesco a stare in una posizione più comoda, senza essere troppo sdraiato. Mi godo qualche attimo di silenzio, la tv è spenta, ma non ne sento la mancanza. Gli occhi mi si chiudono ancora, non sono mai sazi di riposo.

La tranquillità finisce in fretta, è già l’ora delle visite.

Il terzo uomo, quello che dormiva quando sono entrato in stanza e anche mentre cenavo, deve aver mangiato velocemente durante il mio pisolino, si alza di colpo e accoglie le sue visite. Sembra ci sia tutta la famiglia. Racconta loro minuto per minuto tutto quello che ha vissuto nella giornata, gli esami sostenuti e i risultati esposti dal medico durante il consueto giro mattutino. Poi fa un segno ruotando la testa di novanta gradi sul collo, andando a individuare l’uomo con la moglie, fa seguire all’indicazione dell’oggetto anche il contenuto del messaggio schioccando la bocca in un segno negativo, presagisce che le cose non stiano andando per il verso giusto, ultima scuotendo la testa per chiudere definitivamente il bollettino medico.

Penso a cosa direbbe su di me, se non gli fossi accanto. Avrebbe ancora pochi elementi, se non la mia età, visto che non l’ho taciuta fin dall’inizio e penso che abbia ascoltato tutti i dialoghi precedenti con la donna, mentre faceva finta di dormire. La sua famiglia è abbastanza rumorosa, tanto che in un paio di circostanze gli infermieri si affacciano per chiedere di abbassare la voce. Non bastassero le persone già presenti, entrano nella nostra stanza altri due uomini, si fermano dal medesimo paziente facendosi burla di lui fin dalla porta. Hanno la voce grave, sembra stiano in un bosco, mentre avvisano la caduta di un albero appena tagliato. Un solerte infermiere entra di colpo e chiede maggiore rispetto per i degenti, invita a rimanere solo due alla volta vicino al parente/amico e promette di ripassare per controllare il rispetto di questa regola di condotta. 

A questo punto, l’uomo indica la porta ai primi visitatori e si intrattiene con i nuovi arrivati. Sembrerebbe tutto calmo, invece entra un’altra persona e si ferma al solito letto. In pratica riceve le visite per tutti e tre; infatti né io né l’uomo con la moglie aspettiamo qualcuno.

L’orario delle visite finisce segnalato dal suono di una campanella. Gli ultimi saluti e ormai ci resta davanti solo la lunga notte degli ospedali. Per la verità è già iniziata da parecchio, tanto è buio fuori dalla finestra fin da prima della cena. In questo periodo sembra ancora più lunga, sostiene il mio ragionamento un’infermiera esperta passata a consegnare le medicine previste per ognuno. A me non spetta nulla, e di questo mi compiaccio.

Non riesco a tenere aperti gli occhi neanche durante il telegiornale delle venti. Crollo ancora sotto le bordate del sonno, stavolta la collaborazione viene dal caldo della stanza, giusto un po’ elevato, ma al tepore non si rinuncia facilmente. La porzione di notte dedicata al sonno è interrotta più volte, in un paio di circostanze è dovuta alla presenza degli infermieri chiamati dalla donna che assiste suo marito seduta sulla solita sedia, in un numero maggiore di occasioni, invece, mi sveglio per colpa del trombone sdraiato sul letto accanto al mio. Il passare del tempo mi ha portato in dono un sonno abbastanza leggero, in più sono abituato a dormire solo, quindi queste novità mi scombussolano, ma porto pazienza, sapevo di dover passare la notte così. 

Intorno alle tre mi reco in bagno, cerco di non fare troppa confusione, credo di esserci riuscito, nessuno si muove nella stanza.

L’alba ci inonda delle prime luci e noi siamo già all’erta in vista dei prelievi mattutini e della seguente colazione. Mi scopro affamato, pensando di non aver neanche digerito la cena, invece divoro il latte e le fette che mi hanno portato. Chiederei il bis, ma me ne vergogno. La donna afferma che il marito ha trascorso la notte migliore da quando è ricoverato. Tra poco verranno a prenderla e andrà a riposarsi un po’ a casa, sarà di ritorno nel pomeriggio e io le prometto di star attento al marito. Può riposare tranquilla.

Mi allontano per una decina di minuti dalla stanza solo per un esame. Mi fa strada un infermiere tra i corridoi lunghi dell’ospedale fino a giungere nell’ambulatorio esatto. «Riuscirebbe a trovare la strada da solo per tornare in reparto?», mi chiede il giovane infermiere. Certo, rispondo senza indugio, ma mento senza pudore, perché non ho preso alcun punto di riferimento, mentre se mi avesse avvisato in partenza, ora saprei di sicuro come tornare. In qualche modo farò.

Dopo venti minuti sono di nuovo seduto sul mio letto, ho appeso la mia vestaglia e sto leggendo un quotidiano. Nel tornare ho trovato il punto ristoro che ha anche della stampa e ho provveduto ad acquistare qualcosa per intrattenermi e informarmi. Ovviamente ho percorso un’altra strada rispetto all’andata, ancora non ho capito come, ma ho trovato il giusto sentiero senza dare l’impressione di essermi perso.

Quando il medico di turno fa il giro dei pazienti, mi trova alle pagine sportive, un classico. Scambiamo una battuta sul calcio e mi dice, tra un pareggio e una sconfitta, che il mio fisico acciaccato non ha aggiunto nulla di sconvolgente all’elenco storico. Insomma, sto bene. Sono in attesa di un paio di risultati e prevedono di dimettermi il giorno dopo. Ecco, va benissimo così, mi lascio sfuggire senza mantenere il giusto controllo. «Sembra quasi non voglia tornare a casa», mi stuzzica il medico guardandomi di sottecchi, mentre appunta qualcosa sulla mia cartella clinica. No, affatto, rispondo senza perdere il tempo della battuta, domani mi va benissimo, avevo appunto un impegno. Vorrà dire che oggi trascorrerò la giornata in vostra compagnia, chiudo la questione con un sorriso generale.

È l’ora del pranzo, se fossi a casa mia starei apparecchiando, quindi non mi pesa molto rispetto alla cena, quella è servita davvero troppo presto.

Mentre un paio di infermiere entrano in stanza, compare anche la donna andata a casa a riposare. È pronta per stare vicina al marito fino all’indomani mattina. In quel momento varca la porta l’uomo del punto ristoro al piano terra, porta un vassoio di dolci e lo depone sul tavolo vicino al mio letto, mi saluta e va via. Quando ho comprato il quotidiano, avevo ordinato anche i dolci. Un’infermiera, girandosi dopo aver sostituito una flebo, domanda meravigliata: «Qualcosa da festeggiare?». Annuisco con il viso, apro il pacchetto e invito tutti a prenderne. È il mio compleanno, compio ottantaquattro anni.

«Proprio oggi?», chiede conferma l’altra infermiera. Sì, mi limito ad aggiungere.

In pochi minuti la nostra stanza è meta di un folto pellegrinaggio e ci sono dolci per tutti. Anche un paio di medici approfittano, vista l’ora, del gradito spuntino, ma invitano a non esagerare con lo schiamazzo. 

Mia nonna diceva: quando si mangia non si parla. Con questa citazione strappo un risolino al medico e lo tranquillizzo. 

Pomeriggio e notte sono un tutt’uno e l’esatta ripetizione della giornata precedente. Anche le visite sono le stesse di ieri, compresi i richiami al silenzio o almeno al non eccessivo trambusto. 

La mattina seguente mi reco in bagno intorno alle sei ed esco accuratamente sbarbato. Mi sento in forma.

Dopo la visita mattutina, il medico, che ho visto più spesso durante questo ricovero, mi invita a seguirlo in uno studiolo vicino all’ingresso del reparto. 

Mi fa accomodare dicendo: «Un po’ di pazienza e tra poco sarà di nuovo un uomo libero». Dipende dai punti di vista, lo freddo all’istante. 

«Ha ragione, ma non penso sia bello passare giornate intere in un ospedale.» 

Confermo, e aggiungo che mi sono trovato bene e ora sono anche più tranquillo, mi hanno appena annunciato di stare in salute e di poter tornare a casa.

«Appunto, può chiamare qualcuno per farsi venire a prendere.»

Veramente non saprei chi chiamare. 

Il medico mi sembra spiazzato.

Vivo da solo e non ho parenti. I miei amici, quei pochi non ancora morti, non guidano più da anni, hanno ritirato loro la patente. «Non gliel’hanno più rinnovata?». No, i loro parenti le hanno sequestrate per paura di incidenti. In effetti tra vista scadente, udito calante, non è stata una grossa perdita, quanto una prudenza condivisibile, ammetto.

«Come farà a tornare a casa?» 

Non lo so, dico senza sembrare imbarazzato, in qualche modo provvederò.

«Dove abita?»

A Frigento, affermo dando ulteriori informazioni, sulla falsa riga di quanto fatto durante la richiesta telefonica dell’ambulanza. 

«Guardi, io sono di Rocca San Felice, se aspetta il cambio turno, l’accompagno io, tanto sono di strada.»

Non si preoccupi, non voglio disturbarla, farò diversamente.

«Insisto. Allora, un paio d’ore e mi aspetterà nella sala d’attesa davanti a questo reparto. Nel frattempo io ultimo le sue dimissioni, lei si sistema, prende le sue cose e ci vediamo là. D’accordo?»

Va bene, lei è molto gentile, dico colpito dal gesto.

Per far spazio a chi avrà bisogno del letto, libero subito la stanza dalle mie cose, saluto i due pazienti e la donna, nel momento in cui sta imboccando il marito. Le faccio un altro occhiolino e nel contempo stringo il pugno per indicare di farsi forza.

Mi sembra di stare in una stazione ferroviaria, sono seduto con accanto il mio bagaglio.

Ecco comparire il medico, mi alzo, imbocchiamo l’ascensore, usciamo all’aria pungente di questo inverno, ma c’è il sole. Saliamo in macchina e prediamo a scendere per lasciare Ariano Irpino. 

Ringrazio ancora una volta il medico del bel gesto di accompagnarmi e, a debita distanza dall’ospedale e sicuro che non mi farà smontare dall’auto per quello che sto per dire, affermo: sto bene.

«Gliel’assicuro, tutti gli esami hanno dato esito negativo, il suo cuore va più che bene, rispetto alla sua età.»

No, dottore, questo lo so. In più me l’ha confermato poche ore fa.

«Allora di cosa ha timore?»

Cerco di spiegarmi: guardi, non ho timore. Volevo solo svelarle il motivo della mia chiamata per avere un’ambulanza e raggiungere l’ospedale. Lei è stato così cortese con me e io non vorrei approfittare della sua buona fede.   

«Continuo a non capire», sento dire a un incrocio.

Mi faccio coraggio e parto sparato. Ho telefonato al 118 con la speranza di venire trattenuto fino a oggi. Si ricorda, ieri era il mio compleanno e non volevo trascorrerlo da solo a casa. Non ho nessuno e mi sarei sentito triste. Spero di non aver rubato il posto a nessuno, in più ho visto la sofferenza dell’uomo nella mia stessa stanza, quello accudito dalla moglie, e mi sono vergognato di quanto ho fatto, ma ormai ero lì, non potevo dire: è stato uno scherzo.

«Capisco.»

La prego di non fraintendermi, apprezzo il vostro lavoro, ma sono stato egoista.

«Facciamo così, la prossima volta ci invita a casa sua», propone per chiudere l’imbarazzo.

Scendo dall’auto davanti casa mia e dico: abito qui, quando vuole un caffè, mi venga a trovare, ma non aspetti troppo, mica so ancora quanto mi rimane?

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