La tela della Vergine

di Francesco Di Sibio, tratto dalla raccolta di racconti Cosa vuoi che sia un anno (Fara editore, 2020)

1.

Mi chiamo Antonio Vecchione, di mestiere faccio il pittore, il mio maestro mi ha insegnato tanti trucchi, ma soprattutto mi ha aperto gli occhi al bello. Con il bello, io ci mangio.

Quando sono arrivato qui, avevo sul carro dei grossi rotoli, hanno destato molta curiosità in quanti ho incontrato. I miei discepoli hanno condotto il cavallo in una stalla, per farlo mangiare e riposare, la salita lo ha spossato. Io sono andato di filata nella cattedrale, mi hanno indicato la strada, era facile: sempre dritto lungo la via principale, seguendo la curva, di fronte ho trovato le scale, una decina, quindi l’ingresso e sono entrato. Il tempo di un segno di croce e mi si è parato davanti un canonico. Mi ha scagliato addosso i suoi titoli onorifici e mi ha invitato a pernottare a casa sua, o meglio della sua famiglia, non lontano dalla chiesa. Per questo motivo ho accettato. 

Ha fissato un appuntamento con l’intero capitolo, tutti i canonici mi vogliono conoscere, sono giunte note lusinghiere nei miei riguardi, l’eco dei lavori all’Abbazia di Loreto per i benedettini di Montevergine mi ha preceduto. Sono passati ormai dieci anni, da allora ho avuto molto più lavoro e tanto successo. Domani farà la mia presentazione ufficiale; mi ha chiesto se vorrò pronunciare qualcosa, una sorta di discorso, ma io ho risposto di non avere nulla da dire, voglio mettermi al lavoro dopo questa pagliacciata, definita in sua presenza l’onore della presentazione. Nulla di più. 

Non ho tante parole da dire. Io parlo con i colori e il pennello, e questo mi basta. 

2.

Quindi oggi ho conosciuto i membri del capitolo. Non mi soffermo nel descriverli, non è mia abitudine, ma uno mi ha colpito, dev’essere una specie di intellettuale, di quelli veri, non di quelli che vogliono solo apparire, ha fatto un unico intervento di poche parole e mi ha segnato, mentre gli altri non lo hanno neanche ascoltato, anzi parlavano tra di loro. Penso di aver capito: nessuno lo considera. 

Il canonico Pesta ieri sera mi ha scortato fino a casa sua, ho cenato una minestra semplice e cucinata con prodotti buoni, della loro terra, mi diceva. Anche la cuoca dev’essere brava. I commensali, l’anziano padre, il canonico, suo fratello e un paio di sorelle zitelle, volevano che raccontassi loro le mie fatiche artistiche, mentre il primogenito mi ha chiesto quanto mi pagherà il vescovo per il lavoro commissionatomi; ho risposto ai primi di essere spossato, come il cavallo, e al secondo di avere una lettera d’incarico del vescovo, ma i conti si faranno a lavori ultimati. Restare vago è buona norma, soprattutto con gl’impiccioni. I patti sono chiari, il vescovo Gioacchino Martinez si è impegnato in un contratto firmato da tutti e due a pagarmi per la committenza quattrocento ducati.

Stamattina ai canonici, per zittirli, ho dato un compito: dovranno trovarmi due persone del posto, un uomo e una donna, mi serviranno da modelli per ultimare una scena, si è accesa una bella discussione, intanto io mi sono licenziato chiedendo il consenso e sono uscito per riunirmi ai miei allievi.

3.

Ho fatto una camminata per il paese. Sono ancora tante le macerie, i muri crollati, le case hanno bisogno di essere ristrutturate. Sono trascorsi trent’anni dal terremoto della vigilia di sant’Andrea nel 1732; varie persone, soprattutto artigiani, hanno perso tutto, bottega e casa, ne ho incontrati alcuni, hanno ripreso subito in mano gli arnesi, hanno scavato tra le macerie per recuperare il loro bene più grande: gli attrezzi con i quali mandano avanti la famiglia con una vita dignitosa. Cosa farei senza i miei pennelli? 

I segni di nuove edificazioni, d’altra parte, fanno capolino in più parti, soprattutto a pochi passi dalla chiesa madre, così chiamano la cattedrale, in quella zona sorgono i palazzi gentilizi più significativi, senza ombra di dubbio. Soggiorno in uno di quelli. Prima della cena trovo il tempo per questi miei appunti sterili, dopo la cena cercano di propormi un pezzo al pianoforte, una poesia o un brano letterario – in questo si cimentano soprattutto le due sorelle zitelle –, ma io cerco sempre di accampare scuse e ritirarmi nella stanza a mia disposizione. Dormo. Dormo in modo semplice e pesante, come mai mi era capitato finora. Ho pensato a delle spezie mai assaporate, delle droghe nella minestra, poi ho semplicemente dedotto che l’altitudine del monte e l’aria fina aiutano il mio riposo. La mattina mi sveglio pieno di forze.

4.

L’impalcatura di legno è finalmente pronta, copre tutta la navata principale. Adesso i falegnami provvederanno a montare una controsoffittatura in legno di castagno, da me approvata tavola dopo tavola, una volta ultimati questi preparativi, potremo fissare le tele della prima serie: l’Assunzione al cielo di Maria. È il lavoro più imponente dei due. Poi dovrò solo apportare delle rifiniture, magari recuperare piccole parti rovinatesi durante il viaggio o cose del genere. A questo lavoro mi sono dedicato per mesi nel mio studio a Napoli. Arrotolavo e srotolavo le parti per verificare se le figure combaciassero. Di certo non ho un laboratorio grande come la navata di una cattedrale, seppur semplice e sobria come quella di Frigento. In effetti avevo ricevuto le misure, ma le indicazioni sulla struttura erano scarne e troppo generiche, così ho creato una scenografia barocca molto importante, con forme verticali piene di volute, slanci verso l’alto e tanto ancora, pensando di avere a che fare con una chiesa come quelle costruite a Napoli in questi decenni. Invece sono andato oltre, forse troppo, visto che i pilastri sono robusti e tozzi, hanno degli stucchi, delle conchiglie, ma non è il florilegio barocco che mi aspettavo, tant’è che un mio allievo dall’occhio fino mi ha esposto il suo dubbio: una tela fuori contesto rispetto alla struttura dove sarà ospitata. Per me, il barocco, fino a che sarà ancora in voga, rappresenta anche questo: lasciare immaginare quello che non c’è o che si vorrebbe, gli ho risposto.

5.

Una vera leggenda. Il maestro sembrava nato col pennello tra le mani, un talento senza eguali, in bottega spesso chiedevamo di raccontarci quell’incontro che gli aveva cambiato la vita, lui era restìo, non voleva apparire un mostro arrogante, seppur sicuro dei suoi mezzi. A volte, messa da parte ogni remora, principiava nel racconto. Un giorno, presso l’abitazione di famiglia a Nocera dei Pagani, paese della madre, il padre Angelo, pittore anch’egli, ospitò colui che nacque Pietro Francesco Orsini, divenne cardinale e morì papa, poco più di trent’anni fa, col nome di Benedetto XIII. Il cardinale, quasi a sottolineare la secolare predilezione della categoria per l’arte, osservò con occhio esperto alcune opere del giovanissimo Francesco Solimena; rimasto stupito per il tocco, la pennellata, le figure, consigliò ad Angelo di far intraprendere al figlio lo studio della pittura in modo serio, la sua predisposizione l’aveva stregato.

La tecnica era migliorata negli anni grazie all’esempio, alla costanza e alla capacità di entrare nelle mode e negli stili correnti. Andando a ritroso, le sue opere erano figlie delle influenze di Francesco Guarini, ma soprattutto dell’uso dei colori di Luca Giordano, a sua volta allievo della bottega di Jusepe de Ribera, chiamato anche lo Spagnoletto. Questi influenzò tutta la pittura napoletana dell’epoca, mettendo a frutto la lezione di Caravaggio, quella meravigliosa e insolente drammaticità. Noi veniamo da lì.

Di bottega in bottega, di generazione in generazione, ecco come procede il nostro lavoro, un vero artigianato; a me non piace proporre lezioni, spiegazioni, non vivo in un’accademia. Poche chiacchiere. I miei allievi devono guardare le mie mani e il risultato delle loro azioni, devono saper sbirciare come intingo il pennello nei colori, come tratto tele e muri, come odoro, respiro, guardo, scruto, ammiro, distruggo, modello, cancello, ritorno sui miei passi a ogni lavoro. Il libro di testo su cui imparare è il lavoro silenzioso del maestro. Il mio maestro era un vero professore dell’arte, la cui cattedra era la sua bottega e noi siamo i fortunati che gli sono stati accanto. 

6.

Il freddo blocca le mani, impedisce di ragionare nel modo migliore. Domani sarà il giorno in cui iniziare a montare la tela principale, quella dell’Assunzione di Maria. La tensione mi rapisce la voce, blocca le parole. Un bel guaio, tra freddo e attesa rischio di fallire, ma non posso fare fiasco, tutti aspettano un lavoro svolto nel migliore dei modi, senza intoppi. Ho preteso di coordinare i lavori, le maestranze saranno ai miei ordini e non devo mostrare cenni di cedimento. Per combattere il freddo di questo marzo, ancora lontanissimo dalla primavera, i miei ospiti hanno preparato per la cena una zuppa di cicerchie. Hanno notato la mia perplessità e una delle sorelle zitelle mi ha illustrato le note principali di questo legume. Inutile dire di non averlo mai sentito nominare né assaggiato. Dopo una prima cucchiaiata di studio, ho instaurato un buon rapporto di soddisfazione reciproca, ho finito il piatto e preso un ulteriore paio di mestolate. Mi sento meglio, sazio e pieno di forze. Un soffio alla fiamma della candela e il sonno ristoratore farà il resto.

7.

Un lungo lavoro durato giorni, ora tutto è finito per il meglio, la stanchezza sta prendendo il sopravvento sulla forza fievole di un quasi cinquantenne, illuso di poter affrontare le peripezie della giornata ancora con la foga di un giovane. Abbiamo consapevolezza di noi? Conosciamo i nostri limiti, le nostre reali possibilità? Certo, tutta questa ricerca non dovrebbe essere l’ostacolo insuperabile per prodezze o spinte a migliorarsi, ma solo la naturale propensione a fermarsi prima di disastri. Semplice, no? Eppure risulta difficile, anche per chi come me, ogni santissimo giorno combatte contro gli incubi del sarò in grado di realizzarlo?, intuire il momento in cui montare una bella staccionata di legno buono per evitare baratri. Avrei realizzato tutto quello su cui ho apposto la mia firma, se mi fossi limitato in partenza? Avrei forse accettato di salire a quindici metri da terra su un’impalcatura di legno per seguire da vicino i lavori di posa delle mie tele, dipinte comodamente nella mia bottega, se dentro di me non battesse un cuore di combattente, pronto a scalare ardue montagne pur di dimostrare, lavoro dopo lavoro, il mio valore? Avrei voluto provvedere in modo diretto alle rifiniture necessarie per ultimare le tele, come un novello Michelangelo nella Cappella Sistina, a testa in su, coi colori che mi gocciolano sul viso? In effetti avrei potuto comodamente indicare un allievo per fare tutto ciò e seguire con i piedi ben saldi al suolo, urlando la mia contrarietà, vera o presunta, solo per il debole senso di chiarire chi comanda. 

La tela dell’Assunzione è al suo posto. Ora smonteremo l’impalcatura per osservarla nel suo complesso, sperando di non notare troppe imperfezioni, altrimenti rimonteremo una struttura più agile per raggiungere lo spazio minimo dove ritoccare il lavoro.

8.

Noi artisti siamo maestri dell’illusione: l’Assunzione della Vergine si mostra come un unico grande dipinto in cui la Madonna, contornata da figure angeliche, sale verso il cielo lasciando gli apostoli esterrefatti al suolo. L’effetto è dato da tele cucite l’una all’altra longitudinalmente, incollate e inchiodate al supporto costituito dalle tavole di castagno montate in precedenza. Un manto color turchese avvolge la figura della protagonista, quel colore sembra svanire investito dalla luce emanata dalla colomba dello Spirito Santo. Gli orientali parlano di una dormitio, un addormentarsi sottrae la donna, madre di Cristo, allo scandalo mostruoso della morte. Mi sono ispirato a un dipinto di Tiziano Vecellio, a una sua copia che mi è capitata tra le mani, e poeticamente ho immaginato la donna per antonomasia salire al cielo vispa, energica, con il suo sguardo ben puntato verso l’osservatore, a lasciar intendere qualcosa che solo questi può intuire, per ciascuno, allo stesso modo, una verità diversa e sconvolgente. Ella è l’unica in grado di leggere nell’intimo e arrecare sollievo. Quello sguardo lo senti addosso, ma in modo soave, da madre premurosa. Potrebbe sembrare un paradosso, ho rappresentato una trapassata con gli occhi aperti, ma la fede apre gli occhi ai ciechi, spalanca lo sguardo sull’eternità. I canonici, anche i più titubanti, hanno apprezzato, mi sono divertito nel dare sfogo alle loro interpretazioni, sono un umile e silenzioso artigiano del colore, non sfido teologi – o sedicenti tali – in tenzoni filosofiche. Io creo illusioni.

9.

Finalmente ho svelato il motivo della richiesta di un uomo e una donna che fungano da modelli. In questi giorni c’è stata una spasmodica corsa all’accaparrarsi quel posto. Parenti, amici dei canonici in fila per la selezione prevista nella giornata di ieri. Facendo un po’ il furbo, non avevo dato indicazioni: un uomo e una donna, nulla più. È un vecchio trucco imparato in tanti anni di attività; se vuoi levarti di torno degl’impiccioni, trova loro un’occupazione, fai finta che siano indispensabili alla buona riuscita del tuo lavoro. Così ho fatto.

Giovane, vecchia, bella, brutta, magra, formosa, bionda, mora, nessuna indicazione, anche perché non mi importava una figura in particolare. Ho scelto in un attimo la donna che mi sembrava adatta. L’ho indicata e ho esclamato: lei. Poi sono passato alla meno folta platea degli uomini, ho scelto un giovane scuro di carnagione, un po’ stempiato, con lo sguardo poco incisivo, tanto mi servirà di profilo e in secondo piano rispetto alla donna.

Mi sono dedicato per un paio d’ore a produrre uno schizzo su carta dei loro volti: la donna, mento all’insù, con lo sguardo perso alla sua sinistra; l’uomo quasi distratto, svagato, guarda verso la sua destra profonda. 

La tela montata sul transetto raffigura un popolo implorante grazie nei confronti di san Marciano, il patrono di questo paese. Partendo dall’agiografia del santo, l’ho immaginato con le insegne di vescovo – mitria e pastorale, quest’ultimo appare più un bastone da pellegrino –, con un mantello dal delizioso panneggio tra l’ocra e il dorato. In basso a destra, rispetto alla figura principale, ho posizionato un’indemoniata, alle sue spalle un uomo la sorregge, mentre dei piccoli draghi, i demoni, volano via per intercessione del santo. Quelle due figure laterali avranno per sempre i volti di altrettanti frigentini.

10.

Il canonico Pesta è molto dispiaciuto, mi ha trovato mentre predisponevo i miei bagagli. Il giorno della partenza è arrivato, altri lavori mi attendono. Il carro, ormai senza più le tele ingombranti, sarà riempito da otri di olio e vino, qualche sacco di grano, un paio di polli. Sono dei doni inattesi e per questo molto graditi. Nel pomeriggio c’è stato un viavai di visite. Anche gente comune, non solo i sempre presenti canonici, ha voluto lasciarmi un segno in ricordo della mia presenza. Mi hanno davvero commosso. Il padrone di casa ha organizzato una sorta di festa per stasera, mangeremo un cappone e ho chiesto fossero invitati anche i miei collaboratori, richiesta accordata all’istante. Quello che era un divertente passatempo, la mia presenza, finisce, dovranno attendere un bel po’ fino ad avere una novità degna di nota per questa comunità, nel frattempo ho annientato un paio di velleità artistiche, l’ho fatto senza scrupoli, perché l’arte è un dono, va coltivata e non millantata.  

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